Santi Gnoffo L’ORATORIO DELLA CONGREGAZIONE DELLE DAME AL PONTICELLO


BREVE STORIA
Purtroppo poche sono le fonti storiche relative a questo gioiello così come i documenti. La fondazione della Nobile Congregazione Segreta delle Dame sotto il titolo dell’Aspettazione del Parto della Vergine, risale probabilmente agli ultimi anni del XVI secolo, o secondo quanto riporta il Mongitore nella sua opera intitolata “ Palermo divota di Maria ” al 1608. I soldi per acquistare questi locali dalle Suore dell’Origlione furono sborsati dalle Consorelle, per questo fu proprietà privata. Facevano parte di essa nobildonne della migliore aristocrazia palermitana dell’epoca, che si riunivano ogni venerdì per le pratiche di culto. Le Consorelle erano sposate o nubili e pur rimanendo nel rango sociale a cui appartenevano, si impartirono una struttura religiosa di tipo monacale con lo scopo sociale sopra trascritto. La Congregazione sorse con lo scopo di assistere le partorienti di umili condizioni del quartiere Albergheria. Esse si riunivano ogni venerdì per esercitare la missione caritatevole ed una volta al mese per pregare e meditare “ buona morte “ , per le partorienti e per le consorelle defunte, nonché nel periodo Natalizio per le Novene e in Quaresima per gli esercizi spirituali, coadiuvate da un padre Gesuita.
A Natale e a Pasqua, per l’appunto, venivano distribuiti alle puerpere i canestri che con indumenti per bambini confezionati a mano da loro stesse e distribuendo beni di prima necessità. Nel 1733, fu riformata da donna Eleonora Ruffo e Oneto principessa di San Lorenzo.La Congregazione era retta da una Preside o Superiora, eletta ogni anno tra le Consorelle, essa era coadiuvata da due Congiunte; una detta di “man destra” e l’altra di “man sinistra”.
Nel 1798 i Reali Borbonici fuggirono da Napoli per sfuggire alle truppe napoleoniche e si rifugiarono in Sicilia ( 1798 ), la regina Maria Carolina, durante la sua permanenza a Palermo, assunse la carica di Superiore; da allora fino alla fine della monarchia saranno le regnanti in carica ad avvicendarsi nella prestigiosa carica, tra cui la regina Maria Adelaide D’Asburgo-Lorena, la regina Margherita di Savoia e la Regina Elena Petrovich del Montenegro.
DESCRIZIONE
L’antico portone d’ingresso, che si trova in via Ponticello, riccamente decorato e adagiato su un portale barocco in pietra di Billiemi, sormontato da un medaglione in marmo bianco in cui è inciso il monogramma mariano.si percorre l’andito che è con volta a crociera e conduce al “ giardinello “ ed ai locali dove si riunivano le Consorelle. L’Oratorio fu edificato all’epoca della fondazione della Congregazione, quindi a cavallo tra la fine del Cinquecento e gli inizi del secolo successivo, l impianto è quello tipico degli oratori palermitani con antioratorio, aula e presbiterio rettangolare, comprende raffinate decorazioni a stucco, stupendi affreschi e decorazioni parietali, oltre a magnifiche opere pittoriche, eleganti e finissimi arredi lignei ad intarsio e preziose suppellettili di diverse epoche. La “ Cappella delle Dame” , come è comunemente denominata, è stata dichiarata monumento nazionale, fu magnificamente affrescata da Antonino Grano intorno al secondo decennio del XVIII secolo, presenta al centro della volta il “ Trionfo della Vergine ” contorniato da sei storie dell’infanzia di Gesù. Nelle pareti campeggiano finte architetture e finti rilievi a stucco ed un ciclo pittorico che rappresenta i “ Misteri “, racchiusi in magnifiche cornici scolpite e dorate. La parete presbiterale è dipinta a “ trompe l’oeil ”, con la simulazione dello sfondo con finte architetture che disegnano un deambulatorio che comprende due statue dipinte di S. Pietro (a sinistra ) e S.Paolo (a destra). Ciò da un effetto tridimensionale. L’altare barocco con inserti a marmo mischio, è arredato con una selva di candelieri e vasetti con fiori d’argento, com’era usuale nei tempi passati. Sopra l’altare si venera una tela raffigurante la “Madonna del Parto” di anonimo pittore siciliano del Settecento, racchiusa da una cornice dorata dei primi anni di quel secolo. Addossato alla parete di controfacciata si trova lo stallo ligneo intarsiato della Superiora e delle due Congiunte, ed un tavolo intagliato è posto accanto al Crocifisso settecentesco, sormontato in alto da una tela rettangolare che raffigura “ L’ultima cena ”. E’ curioso il fatto che tra le opere custodite nell’Oratorio vi è una copia seicentesca su tela dello “ Spasimo di Sicilia ” di Raffaello, il noto dipinto un tempo nella chiesa omonima palermitana ed oggi al museo del Prado di Madrid. Nel corso dei secoli l’oratorio ha subito alcuni interventi di restauro, nel 1873, come si evince da una piccola targa marmorea murata nell’intradosso del muro della porta d’ingresso dell’aula, la allora Superiora, donna Bianca Lucchesi Palli, duchessa di Monteleone si adoperò per far restaurare l’Oratorio arricchendolo con nuove ornamentazioni e raffinati pavimenti maiolicati. Altri interventi (sempre pagati dalle Consorelle ), vennero effettuati nel 1957 per riparare i danni dei bombardamenti americani della seconda guerra mondiale, e più recentemente nel 1985 a causa di infiltrazioni di acqua dalla copertura del tetto della Cappella che hanno purtroppo rovinato in parte alcuni affreschi. Ai piedi del paliotto (rivestimento che copre la parte anteriore dell’altare ), si trovano alcune piastrelle di maiolica che mostrano l’immagine del Ponticello sotto il quale scorre il fiume Kemonia o Cannizzaro ( dall’arabo Haindrizzar, cioè fonte stretto, perché nasceva da un luogo angusto presso Monreale). ( Santi Gnoffo )

Oratorio delle Dame Al Ponticello- PALERMO di Nicola Stanzione

La Congregazione

La fondazione della Nobile Congregazione Segreta delle Dame sotto il titolo dell’Aspettazione del Parto della Vergine sembra risalire probabilmente agli ultimi anni del XVI secolo, o secondo quanto riporta il Mongitore nella sua opera intitolata “Palermo divota di Maria” al 1608. Alcuni secoli dopo, nel 1733, fu riformata da donna Eleonora Ruffo e Oneto principessa di S. Lorenzo. Facevano parte di essa nobildonne  della migliore aristocrazia palermitana dell’epoca, che si riunivano ogni venerdì per le pratiche di culto, sotto l’assistenza di un ecclesiastico ( tradizionalmente un Gesuita)

La Congregazione sorse con lo scopo lodevole di assistere le partorienti di umili condizioni del quartiere Albergheria.

A Natale e a Pasqua, per l’appunto, venivano distribuiti alle puerpere i canestri che comprendevano un corredino completo per il neonato realizzato a mano dalle consorelle, una tradizione che ancora oggi continua, ai quali le dame si sono sempre dedicate con tanto amore, impegno e maestria. La  Congregazione era retta da una Preside o Superiora eletta ogni anno tra le consorelle, ed era coadiuvata da due congiunte; una detta di “man destra” e l’altra di “man sinistra”.
Quando la corte borbonica di Napoli per sfuggire alle truppe napoleoniche si rifugia a Palermo il titolo di Preside viene assegnato addirittura alla regina Maria Carolina: da allora fino alla fine della monarchia saranno le regnanti in carica ad avvicendarsi nella prestigiosa carica, tra cui  la regina Maria Adelaide D’Asburgo-Lorena, la regina Margherita di Savoia e la Regina Elena Petrovich del Montenegro. Oltre ai venerdì le Dame si riunivano una volta al mese per meditarvi la “buona morte”,per pregare per le partorienti e per le consorelle defunte, non che in Quaresima per gli esercizi spirituali, e nella novena di Natale.

Oggi la Congregazione, sempre formata da sole donne, continua nelle opere di beneficienza e di assistenza sociale prestando un aiuto tangibile agli indigenti del quartiere, in modo particolare alle giovani donne e neo mamme in situazioni di disagio sociale ed economico: e non solo italiane, ma anche donne immigrate da paesi extra-comunitari.

L’OratorioUn monumento di eccezionale valore artistico, edificato all’epoca della fondazione della Congregazione, quindi a cavallo tra la fine del Cinquecento e gli inizi del secolo successivo.

L’ impianto è quello canonico degli oratori palermitani con antioratorio, aula e presbiterio rettangolare, comprende raffinate decorazioni a stucco, stupendi affreschi e decorazioni parietali, oltre a magnifiche opere pittoriche,  eleganti e finssimii arredi lignei ad intarsio e preziose suppellettili di diverse epoche. Vi si accede dalla via Ponticello attraverso un vecchio portone in legno incorniciato da un elegante portale barocco in pietra di Billiemi, sormontato da un medaglione in marmo bianco in cui è inciso il monogramma mariano. L’ingresso immette in un corridoietto lungo le cui pareti corrono due panche lignee (tipiche degli oratori) cui fa seguito una sorta di galleria porticata su cui si affacciano, sulla destra le finestre del salone della congregazione e, a sinistra, il caratteristico “giardinello” (da cui prese il nome la Congregazione), da qui si accede alla bella Sacrestia e alla magnifica Cappella oratoriale.La “Cappella delle Dame” (che è stato dichiarato monumento nazionale), magnificamente adornata con affreschi eseguiti da Antonino Grano intorno al secondo decennio del XVIII secolo, presenta al centro della volta il “trionfo della Vergine” contorniato da sei storie dell’infanzia di Gesù. Nelle pareti dove campeggiano finte architetture e finti rilievi a stucco si trova un ciclo pittorico che rappresenta i “Misteri“, sempre della bottega del Grano, racchiusi in magnifiche cornici scolpite e dorate di magistrale fattura. La parete presbiterale è dipinta a “trompe l’oeil”, con la simulazione dello sfondo con finte architetture che disegnano un deambulatorio che comprende due statue dipinte di S. Pietro (a sinistra ) e S.Paolo (a destra). L’altare barocco con inserti a marmo mischio, è arredato con una selva di candelieri e vasetti con fiori d’argento, com’era usuale nei tempi passati. Sopra l’altare si venera una tela raffigurante la “Madonna del Parto” di anonimo pittore siciliano del Settecento, racchiusa da una splendida cornice a motivi “fitomorfi” dorata dei primi anni di quel secolo. Addossato alla parete di controfacciata si trova lo stallo ligneo intarsiato della presidenza con magnifico tavolo intagliato dove stà un bel Crocifisso settecentesco, sormontato in alto da una tela rettangolare che raffigura “L’ultima cena”. Particolare interessante, tra le opere custodite nell’oratorio vi è una copia seicentesca su tela dello “Spasimo di Sicilia” di Raffaello, il noto dipinto un tempo nella chiesa omonima palermitana ed oggi al museo del Prado di Madrid. Nel corso dei secoli l’oratorio è stato interessato da diversi interventi di restauro, nel 1873, come si evince da una piccola targa marmorea murata nell’intradosso del muro della porta d’ingresso dell’aula, la allora presidente donna Bianca Lucchesi Palli duchessa di Monteleone si adoperò per far restaurare l’oratorio arricchendolo con nuove ornamentazioni e raffinati pavimenti maiolicati. Altri interventi (sempre  a carico delle congregate che si sono più volte autotassate), vennero effettuati nel 1957 per riparare i danni dei bombardamenti americani della seconda guerra mondiale, e più recentemente nel 1985 un ulteriore intervento di straordinaria manutenzione e di restauro si è reso necessario a seguito di infiltrazioni di acqua dalla copertura del tetto della Cappella che hanno purtroppo rovinato in parte alcuni affreschi. Oggi l’oratorio grazie all’impegno delle consorelle che ne curano la tutela, si presenta in discreto stato di conservazione, ma l’aula necessita di alcuni interventi di restauro, soprattutto sulle pitture parietali leggermente danneggiate dall’umidità.

L’edificio è visitabile solo una domenica al mese quando è possibile assistere alla Santa Messa, in occasione della festa della Madonna del Parto, il 18 di dicembre, quando viene celebrata in gran pompa la messa in presenza del vescovo, ed in alcune particolari occasioni.

Nicola Stanzione

Oratorio delle Dame
Via del Ponticello,39

Le Metope dei Templi di Selinunte al Museo Salinas di Gaetano Celauro

 

Le Metope dei Templi di Selinunte al Museo Salinas

 

Al Museo Salinas con Giorgio Lombardo e Silvana Tralongo Associazione Culturale “I Luoghi della Sorgente” .

Una breve premessa sul Museo , già Casa dei Padri della Congregazione di San Filippo Neri, dove nel primo cortile si erge in una fontana una statua del Glauco mentre nell’ altro cortile è stato posto un busto del prof. Antonio Salinas, che fece dono delle sue immense collezioni al Museo che ora porta il suo nome. Molte opere che prima erano in questi ambienti sona adesso nella Galleria di Palazzo Abatellis e questo museo raccoglie ora principalmente le collezioni archeologiche tra cui anche una donazione di archeologia etrusca poco pertinente con il territorio ma di grande interesse. Andando nello specifico a Selinunte, è stata situata nella nuova disposizione museale del “Salinas”, una riproduzione in scala del sito archeologico. E’il più grande sito di Europa ed osservando il modellino, si riscontrano le allocazioni dei luoghi principali , l’agorà , i templi, le strade di collegamento e le insulae. Selinunte fondata dai Megaresi non era una colonia primaria non aveva un teatro proprio sito invece a Megara Iblea che era nelle vicinanze il centro più grosso. In due sale del Museo sono esposte due tipi di metope , piccole e grandi, secondo dove erano collocate in cui si trovano raffigurazioni della Gorgone , della Sfinge, di Era, moglie di Zeus. Ci si immerge osservando le raffigurazioni , nel fascinoso mondo della mitologia greca che influenze notevoli ha avuto nella nostra cultura.

“La Sala di Selinunte raccoglie alcune metope asportate dai templi dell’antica città greca. Si tratta del complesso scultoreo più importante dell’arte figurativa greca d’ Occidente: dal tempietto Y provengono le metope raffiguranti la triade delfica, la sfinge, il rapimento di Europa, Helios, Selene e le Moire e altre. Le metope del tempio C rappresentano la quadriga di Apollo, Perseo che decapita la Gorgone ed Eracle. Le metope del tempio F, danneggiate, rappresentano la gigantomachia. Del tempio E sono invece rimaste le quattro metope con la lotta di Eracle con l’Amazzone, le nozze di Zeus ed Era, Atteone e Artemide e Atena ed Encelado.”(cit.)

E’ bene precisare che in mancanza di una sicura attribuzione al culto di un particolare divinità, i templi sono indicati con lettere dell’ alfabeto italiano. Non si vuole descrivere minuziosamente in questa sede il contenuto delle scene raffigurate in ogni singola metope ma metterne in risalto gli aspetti più curiosi ed intriganti legati a queste rappresentazioni mitologiche. Il figlio di Hera poco gradevole nelle sembianze fu fatto precipitare sulla terra tanto da restare zoppo. Il suo nome è Efesto o Vulcano e venne messo a lavorare con i Ciclopi come fabbro, divenendo il fabbro degli Dei. Le dee Demetra (Cerere per i Romani)e Atena. Demetra era sorella di Zeus e nella mitologia greca è la dea del grano e dell’agricoltura, artefice del ciclo delle stagioni, della vita e della morte. Ma nell’Olimpo vivevano insieme sempre in conflitto, figli e sorelle della grande divinità, Zeus. Vi era tra gli altri Apollo (in greco antico: Ἀπόλλων, Apóllōn) Dio del Sole (di cui ne traina il carro), figlio di Zeus e di Leto (Latona per i Romani) e fratello gemello di Artemide (per i Romani Diana), dea della caccia e più tardi una delle tre personificazioni della Luna (Luna crescente), insieme a Selene (Luna piena) ed Ecate (Luna calante). La quadriga di Apollo è sul tetto del Teatro Politeama e rappresenta la potenza del sole. Fetonte, figlio di Apollo la volle guidare e la rubò ma dopo un maldestro percorso che vide bruciare una parte del cielo che divenne la Via Lattea, cadde colpito dalla collera di Zeus che gli lanciò un fulmine. Il messaggio che si vuole trasmettere in questa storia mitologica riguarda il sole che simboleggia l’energia e la quadriga che la governa che deve essere ben saputa presiedere. Abbiamo una raffigurazione del toro che riproduce l’episodio mitologico di Zeus, che si trasforma in animale per rapire Europa mentre coglie fiori su una spiaggia della Fenicia. Europa, cavalca il toro con atteggiamento timoroso tenendosi al corno destro del toro. Questa metopa è la più antica rappresentazione conosciuta di questo mito cretese, il cui soggetto non risulta molto noto. Entrando nel museo si vede una cornucopia la cui rappresentazione si collega al toro essendo un corno perduto dal fiume Acheloo nella lotta con Ercole per Deianira e riempito dalle Naiadi con fiori e di frutta, come simbolo dell’abbondanza. Il toro , a differenza degli altri animali, non era peraltro oggetto di sacrifici e sottoposto ad olocausto. Sempre in tema di tori, viene alla mente anche Pasifae, moglie di Minosse, re di Creta, da cui ebbe otto figli, di cui i più noti Androgeo, Fedra e Arianna . Secondo la versione più comune del mito, Poseidone inviò a Minosse uno splendido toro bianco affinché venisse sacrificato in suo nome. Il re di Creta però non obbedì al dio, ritenendo troppo bello quell’animale e ne sacrificò un altro: la vendetta di Poseidone non tardò ad arrivare. Infatti questi suscitò in Pasifae una passione folle per l’animale facendole desiderare appassionatamente di unirsi a esso. Accecata dal desiderio, chiese aiuto a Dedalo, rifugiatosi a Creta per sfuggire a una condanna per omicidio, che le costruì una vacca di legno cava nella quale entrare. Il toro montando la finta vacca ingravidò Pasifae che diede alla luce il Minotauro. E’ così che nasce il Minotauro che Minosse per la vergogna fece rinchiudere in un labirinto già destinato ai suoi nemici; Teseo, figlio del re ateniese Egeo ucciderà poi il Minotauro entrando nel labirinto con l’ausilio del filo di Arianna. Nelle grandi metope collocate nel tempio C desta particolare interesse quella che rappresenta Gorgone,la cui rappresentazione ricorda chiaramente quella di Caravaggio. Le Gorgoni erano in numero di tre, di cui una mortale , Medusa che vigilava sul tempio di Atena. Ad un tratto Poseidone si invaghì di Medusa suscitando l’ira di Atena che la trasforma in un mostro e la rinchiuse vicino Trapani in una grotta. Nelle metope si tratta poi del mito di Danae e della pioggia d’oro. Argo, città dalle mille torri era governata da Acrisio che aveva come unica figlia la bellissima Danae che non poteva succedere al padre. Questi andò a consultare un oracolo che gli profetizzò che Danae gli avrebbe dato un figlio maschio che però sarebbe stato causa della sua morte. Acrisio spaventato da tale infausta profezia, fece rinchiudere Danae in una terra temendo per la sua vita. Ma non si poteva andare contro il Fato e Zeus fece in modo che l’oracolo si avverasse; si trasformò in pioggia d’oro che fecondò durante un temporale Danae, da cui nacque il grande eroe Perseo.Molti quadri famosi ripropongono questo mito di cui il più famoso è quello di Rembrandt. Perseo come è noto,riuscì a prendere la testa di Medusa che pietrificava con il suo sguardo diretto. Perseo chiese aiuto ad Atena che gli diede lo scudo che rifletteva l’immagine, altri gli dettero i calzari per volare e l’elmo per rendersi invisibile. Dal collo mutilato della Medusa scaturì Pegaso il cavallo alato e Crisaore il gigante, entrambi figli di Poseidone. Perseo sollevò la pesante testa e la depose su un telo, in segno di pietà affinché la nuda terra non la insozzasse e con quel telo l’avvolse. Poi si alzò in volo con i suoi sandali alati per allontanarsi velocemente da quel luogo sinistro. Perseo raccolse pure il sangue colato di Medusa, che aveva proprietà magiche: quello che era colato dalla vena sinistra era un veleno mortale, mentre quello colato dalla vena destra era un rimedio capace di resuscitare i morti. Inoltre, un solo ricciolo dei suoi capelli, mostrato a un esercito assalitore, aveva il potere di sconfiggerlo. Mentre Perseo vola, il sangue dalla vena destra della testa della Medusa cadde nei pressi di Trapani e si trasformò in corallo da cui il locale corallo rosso mentre quello che proveniva dall’altra vena, scese nel deserto e si trasformò in serpenti e scorpioni. Ma durante una gara sportiva dove c’era il tiro del disco Perseo poi colpisce a morte il nonno facendo così avverare la profezia. Nelle grandi metopi è poi narrata un’altra storia, collegata alle famose “fatiche di Ercole”. E’ il mito di Eracle e i Cercopi come erano chiamati gli appartenenti ad un popolo forse proveniente dalla Libia che si era distinta per frodi e ruberie tanto da essere trasformata da Zeus in scimmie. Due di questi tentarono di rubare Ercole che li catturò e li appese a testa in giù così come raffigurati nella metope. In sintesi sono cinque le metope del tempio E posto fuori delle mura. Raffigurano Eracle in lotta contro l’amazzone Pentesilea, le nozze fra Zeus ed Hera, Atteone sbranato dai cani davanti ad Artemide, Atena che atterra il gigante Encelado e Apollo e Dafne. Selinunte chiamata dai greci “Selinùs”, deriva il suo nome da σέλινον (sélinon), il sedano che tuttora vi cresce selvatico, divenuto simbolo della monetazione della città. La città era sita proprio in riva al mare, fra due fiumi navigabili (il Modione-Selino ad ovest, e il Cottone a est) con due porti. La collina orientale di Selinunte costituiva un altra zona di culto il con tempio E in posizione più rialzata rispetto agli altri. Nelle metope del tempio E troviamo raffigurata la dea Artemide (Diana), sorella di Apollo che non volle saperne della vita sull’Olimpo e preferì vivere nei boschi, divenendo la dea della caccia portandosi con sé con cinquanta ancelle tutte vergini. Una di queste Calliope viene violata e per questo punita, cacciata via e trasformata in un orsa. Ma Zeus, mosso a pietà la trasformò in costellazione, quella dell’Orsa maggiore ;Le stelle per la maggior parte prendono il nome da episodi mitologici tratti dai grandi mitografi quale Ovidio, Omero, Esiodo, etc… In una metope del tempio E abbiamo Artemide con Atteone aggredito dai suoi cani, che era stato allievo di Chirone il centauro che era stato anche maestro di Achille nei combattimenti. I Centauri erano per metà uomini e per metà cavalli ed avevano un indole selvaggia e spesso si ubriacavano e litigavano. Michelangelo Buonarroti in una delle sue prime opere raffigura una “Centauromachia” dove appunto i Centauri invitati ad una festa di matrimonio si ubriacano e suscitano risse. Atteone, si ritrova raffigurato nella statua di fronte all’ingresso di Palazzo delle Aquile, sulla fontana di Piazza Pretoria. In questa metope Atteone è rappresentato quando si trova a caccia con i suoi cani e avendo il vento mosse involontariamente delle canne, vede Artemide nuda mentre faceva il bagno. Il Fato che tutto decide e consente ,volle così e Diana la quale non desiderava assolutamente essere vista, gli lanciò addosso delle gocce di acqua trasformandolo all’istante in cervo. Così trasfigurato Atteone non viene più riconosciuto dai suoi stessi cani da cui viene attaccato e sbranato e che dopo guaiscono disperati cercando il padrone di cui si erano fatti cibo. Tutto è deciso dal Fato anche se Atteone non aveva nessuna colpa. In questo episodio si esplicita la filosofia dell’antica Grecia pagana, diversa dalla concezione cristiana della colpa. E’ privo di senso pensare che si poteva agire diversamente. Quello che si è fatto era l’unica cosa che si poteva fare prescindendo dalla circostanza se sia una cosa buona o cattiva. Sul piano artistico è da porre in rilievo un particolare scultoreo di rilievo,riscontrabile negli inserti delle braccia e del volto degli dei. Essi sono di un materiale diverso rispetto al calcare, gli uomini sono tutti in calcare,a parte Giunone dalle bianche braccia che doveva essere assolutamente candida. E’ un particolare importante legato alla diversa colorazione ed al pregio del materiale del volto e delle mani. La donna come Atlanta, ha il viso in marmo e lo stesso vale per Giunone mentre Giove è di un materiale meno puro. Anche Artemide è diversa, di una scultura più plastica, più ricca di pathos,non proprio ellenistica ma di un periodo più tardo rispetto alle prime metope. Le sculture erano tutti colorate di rosso, blu e bianco, non in calcare come si vedono ora ma Il fondo era colorato mentre i vestiti erano bianche. La Gorgone che si vedeva dal mare da parte dei nemici ed amici era un segno di potenza ed insieme apotropaico diretta a magnificare e ad intimidire. I templi che erano fuori delle mura avevano anche una funzione di dimostrazione di forza e di potenza a voler significare che vi erano gli dei che proteggevano la popolazione. Nella metopa del tempio E dove è rappresentato il gigante Encelado occorre ricordare che ritrae un episodio della gigantomachia , la lotta che i Giganti ingaggiarono contro gli Dei dell’Olimpo, aizzati dalla loro madre Gea e dai Titani. Encelado combatte con Athena che lo cattura e lo scaraventa in Sicilia dove questi si scuote ,butta fuoco e procura i terremoti. Ancora in Grecia quando vi è una scossa si dice che è Encelado che si scuote sottoterra. Queste sono le curiosità della mitologia che rileva questi aspetti nascosti negli anfratti della sua storia.

 

SOPPRESSIONI – BENI CULTURALI e la Chiesa in Italia

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Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Volume II – Dopo l’Unità Nazionale

Voce pubblicata il 11/01/2015 — Aggiornata al 18/01/2015

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Autore: Paola Picardi

Negli anni immediatamente successivi alla costituzione dello Stato unitario italiano una parte di enorme rilievo del suo patrimonio artistico fu investita dal decisivo evento della soppressione delle corporazioni religiose. Per valore, storia, committenza e diffusione sul territorio, infatti, il loro patrimonio rappresenta parte rilevante della ricchezza artistica dell’intero territorio nazionale. Si trattò di un momento cruciale per la storia della gestione del patrimonio culturale che impegnò in modo incisivo le nuove strutture dello Stato ad essa preposte in un’articolata attività di conoscenza e tutela.

Aspetto prioritario acquistava, in questa epoca, la necessità di intervenire nel campo della legislazione ecclesiastica ed in particolare nel riordinamento delle sue vaste proprietà. La materia, infatti, presentava implicazioni economiche, politiche e sociali e dette origine a lunghi ed accesi dibattiti parlamentari. Alcune categorie di enti ecclesiastici erano reputate dallo Stato superflue per la funzionalità della Chiesa e dannose alla pubblica e privata economia per la sottrazione di molti beni, specie immobili, alla normale circolazione e ai tributi. Venne sancita, quindi, la soppressione di tali enti, vale a dire, fu tolta loro la personalità giuridica (cioè la capacità di acquistare e possedere) e fatto divieto che potessero riassumerla in avvenire. In questo quadro generale, il coinvolgimento del patrimonio artistico sembrava, all’epoca, assumere un’importanza limitata ma, in realtà, il nuovo Stato unitario dovette misurarsi con la complessità del lascito artistico e con l’inevitabile esigenza di tutelarlo.

L’origine della complessa vicenda può essere individuata nella legge 25 agosto 1848, n. 777, la quale sciolse le case e le congregazioni della Compagnia di Gesù in Piemonte, ai cui componenti fu vietato di continuare a vivere adunati. La successiva legge Cavour-Rattazzi sopprimeva, invece, gli enti ecclesiastici che «non attendevano alla predicazione, all’educazione o all’assistenza degli infermi» prevedendo la gestione dei loro beni da parte della “Cassa ecclesiastica”, ente autonomo appositamente istituito. Questa legge, con le annessioni dei nuovi territori, venne progressivamente estesa, una volta costituito il Regno d’Italia, all’Umbria (decreto Pepoli del dicembre 1860), alle Marche (decreto Valerio del gennaio 1861), alle Province napoletane (decreto Mancini del febbraio 1861) ed al Veneto (decreto del luglio 1866).

Il dibattito che si svolse in parlamento nel tentativo di formulare una legge nazionale su tale materia, denuncia la presenza di atteggiamenti di differenti matrici ideologiche. L’esame del progetto di legge portò all’approvazione del Regio Decreto 7 luglio 1866, n. 3036 che regolava, per tutto il territorio nazionale fino a quel momento annesso, la soppressione delle corporazioni religiose (cioè tutti gli enti regolari, pur conservando i religiosi, singolarmente considerati, il diritto di convivere sotto l’egida del diritto comune), non che molti enti secolari (capitoli collegiali, ricettizi ed enti analoghi, benefici semplici, legati pii perpetui autonomi e, nei capitoli cattedrali, i canonicati e cappellanie eccedenti rispettivamente il numero di dodici e sei). I loro beni, salvo alcune eccezioni, sarebbero stati incamerati dal demanio ed amministrati, nell’ambito del Ministero di Grazia, Giustizia e Culti, dall’amministrazione autonoma del Fondo per il Culto (art. 25). La legge 15 agosto 1867, n. 3848, infine, stabilì le disposizioni per la liquidazione dell’asse ecclesiastico.

Le questioni relative al patrimonio artistico, rimasero al margine del dibattito parlamentare il quale si limitò a chiarire che, tra i beni eccettuati dalla demaniazione, vi erano solo le chiese mantenute al culto, con il loro patrimonio artistico, e gli edifici, con le loro adiacenze, che rivestivano un carattere di monumentalità (art. 18, R.D. 7 luglio 1866, n. 3036). I «libri e i manoscritti, i documenti scientifici, gli archivi, i monumenti e gli oggetti d’arte o preziosi per antichità» che non erano nè esposti al culto né raccolti in collezioni erano considerati devolvibili ad istituti museali o a biblioteche, comunali o statali, ubicate nella provincia nella quale era situato il convento soppresso (art. 24, R.D. 7 luglio 1866, n. 3036). Il restante patrimonio era considerato alienabile.

Per comprendere, invece, la vastità della ripercussione sul patrimonio artistico, va ricordato che il numero di case religiose soppresse al 1877, ammonta a 4.000 e che, al 1874, ben 1.650 edifici claustrali furono indemaniati, vuotati degli arredi liturgici, destinati al riuso, venduti o distrutti. Il governo ebbe quindi a disposizione una massiccia massa architettonica per assolvere alle diverse necessità dell’amministrazione pubblica: finanziarie, militari, burocratiche…etc.

Nel 1873, poi, venne emanata la legge di soppressione speciale per Roma e provincia (legge 19 giugno 1873, n. 1402 2° serie), che ebbe un iter formativo particolarmente travagliato, a causa della necessità di salvaguardare le prerogative del pontefice e della particolare natura degli enti esistenti nel capoluogo del mondo cattolico. Delle 221 case religiose esistenti a Roma, 126 vennero soppresse ed i rispettivi fabbricati furono indemaniati. Di questi ultimi, sette furono chiusi al culto per esigenze di “pubblica utilità”. L’incameramento di questi beni avvenne tramite la Giunta liquidatrice dell’asse ecclesiastico, organo preposto alla gestione del patrimonio ex claustrale, costituito ad hoc per Roma.

Beni mobili. Di volta in volta venivano nominati commissioni o singoli commissari che provvedevano alla “presa di possesso” del convento redigendo un minuzioso verbale dei beni mobili presenti nell’edificio. Tali verbali erano composti da una serie di moduli nei quali dovevano essere elencate varie tipologie di oggetti. Particolare interesse riveste il quadro XI in quanto i beni che comparivano in questa parte del modulo, erano considerati devolvibili ad istituti museali o a biblioteche, dal momento che in essi era stato riconosciuto carattere di “artisticità” e non erano nè esposti al culto né raccolti in collezioni (art. 22 della normativa di soppressione per Roma).

Una volta incamerato dallo Stato con le prese di possesso delle case religiose, il relativo patrimonio mobile veniva quindi sottoposto ad una selezione. Le opere scelte (quelle registrate nel quadro XI) erano destinate, in accordo con il Ministero della Pubblica Istruzione, a pubbliche istituzioni mentre, quelle non ritenute d’interesse, venivano alienate con la procedura di pubblici incanti. E’ importante evidenziare, dunque, il peso delle scelte dei delegati governativi ai quali, di volta in volta, veniva demandato il potere di stabilire il destino delle opere d’arte interessate dal fenomeno soppressivo. Le decisioni assunte rispecchiavano, non solo le rispettive culture, ma anche i pregiudizi valutativi o l’ideologia delle personalità intervenute nonché la loro moralità. Eloquente, in tal senso, è il caso di un delegato governativo alle “prese di possesso” degli edifici ex claustrali romani presente tra gli acquirenti delle aste dei beni provenienti dagli edifici soppressi. D’altra parte la vastità della dispersione del patrimonio artistico a causa della secolarizzazione è difficilmente ricostruibile e misurabile. E’ da presumersi che molti trafugamenti si siano verificati, infatti, in violazione delle leggi allora vigenti e, salvo i casi di eventuali indagini giudiziarie, le tracce documentarie sono rarefatte.

Nel caso di Roma, per la scelta degli istituti ai quali devolvere le opere, nacquero dissidi tra le autorità municipali e quelle governative. I beni selezionati, se ritenuti di pregio (prevalentemente le opere pittoriche), erano destinati all’Istituto di Belle Arti (attuale Accademia di Belle Arti), e non alla Galleria Capitolina o al Museo Artistico Industriale, entrambi comunali. Sebbene l’Istituto di Belle Arti fosse stato quindi istituzionalmente privilegiato, la maggior parte del patrimonio venne devoluto al Museo Artistico Industriale (le cui collezioni vennero poi smembrate) che, con le sue scuole di arte applicata poteva raccogliere oggetti di arte minore (sculture frammentarie, frammenti architettonici, ceramiche, mobili etc.), prevalente tipologia di beni rinvenuti negli ex conventi.

Per gestire la particolare situazione di Firenze che, come Roma, vedeva coinvolto un enorme patrimonio, fu emanato il decreto 8 agosto 1867 con il quale vennero devolute alle Gallerie fiorentine tutte le opere della provincia, ad eccezione di quelle del comune di Empoli, Prato e Pistoia. Come nel caso di Roma, però, la maggior parte degli oggetti d’arte minore vennero dirottati verso il Museo del Bargello, che intendeva svolgere un ruolo educativo ed esornativo.

Se, in generale, tutte le Accademie di Belle Arti (Bologna, Parma, Modena, Genova, Siena) incrementarono le loro raccolte con opere pittoriche, ai musei nazionali di Napoli e Palermo vennero ceduti non solo la quasi totalità di beni ex claustrali delle rispettive provincie ma anche delle due regioni. Sebbene il dettato normativo prevedesse la devoluzione dei beni artistici a pubblici istituti esistenti nella provincia nella quale era ubicato il convento soppresso, nella prassi vennero spesso accettate le richieste dei municipi che, per non essere privati di opere ritenute importanti per la propria identità, si dotarono di nuovi musei civici. Particolarmente interessante è, in questo senso, il caso nei musei civici umbri che, con loro distribuzione capillare sul territorio, garantirono una conservazione decentrata dei beni artistici.

Beni immobili. L’imponente patrimonio edilizio delle corporazioni religiose fu indemaniato e destinato al riuso. Fanno eccezione le chiese mantenute al culto e i conventi dichiarati monumentali, spesso unica forma di conservazione per il contenitore ed i suoi arredi. Per la stesura dell’elenco degli edifici monumentali nacquero dissidi tra il Ministero della Pubblica Istruzione, animato da preoccupazioni conservative, ed il Fondo per il Culto, che tendeva a ridurre al minimo gli edifici monumentali la cui manutenzione sarebbe stata interamente a suo carico.

La generalizzata riconversione dei beni immobili, soprattutto urbani, permise la diffusione dei servizi pubblici in tempi relativamente brevi. Il riutilizzo più diffuso e di maggior impatto sugli edifici, che generalmente erano storici e di notevole interesse artistico ed architettonico, fu quello militare. Indicativo, in tal senso, è l’epiteto «della demolizione» usato all’epoca per definire gli ingegneri impegnati nei lavori necessari per gli adattamenti dei conventi. Nell’impossibilità di contrastare questa massiccia riconversione, spesso gli addetti alla tutela si limitavano a ricorrere a misure, anche minime, di primo intervento. Per salvaguardare i dipinti murali talvolta li si ricopriva con tavolati, misura che, però, rese difficile lo studio ed il controllo dello stato di conservazione degli affreschi e, alle volte, fu anche causa di danni. Talvolta si procedeva allo stacco dei dipinti murali, non solo nei casi non rari di demolizione dell’edificio, ma anche nell’intento di assicurarne la visione al pubblico con la devoluzione a pubblici istituti museali.

Il quadro conservativo degli edifici ex claustrali si aggravò quando, terminate le cessioni agli enti locali, individuate le chiese da mantenere al culto ed in via di riconoscimento quelli monumentali, il rimanente patrimonio immobiliare cominciò ad essere alienato dal demanio. Il Ministero della Pubblica Istruzione, se non poteva impedirne la vendita, richiese spesso la sua sospensione per il tempo necessario a trasportare altrove i beni artistici mobili o inserì nell’atto di vendita alcune clausole a garanzia della salvaguardia del bene.

Uno dei casi più rappresentativi di questo delicato e problematico tornante della storia del patrimonio artistico italiano è l’insieme delle vicende che portarono alla demolizione ed alla dispersione degli arredi della residenza pontificia al Campidoglio, la così detta “torre di Paolo III Farnese”, di proprietà dei Minori Osservanti del convento di Santa Maria in Aracoeli, ai quali il fabbricato era stato donato da Sisto V con motu proprio del 1585. Le vicende dei suoi affreschi, fortuitamente sopravvissuti, insieme a quelle di altri dipinti e sculture coinvolti nelle soppressioni, notevoli per qualità, stile e provenienza, nel loro insieme contribuiscono a delineare una visione del fenomeno nella sua portata di buone intenzioni, ma anche di devastazione e dispersione.

Fonti e Bibl. essenziale

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